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Le barriere non tariffarie che ostacolano l’ingresso nel mercato cinese – IC&Partners
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Le barriere non tariffarie che ostacolano l’ingresso nel mercato cinese

CINA.IC&Partners

Dalla sede IC&Partners Asia

I cinesi possono vantare una significativa esperienza nell’erigere barriere: non solo perché hanno costruito, a partire dal terzo secolo a.C., la Grande Muraglia ma anche perché il principale passatempo in Cina (il Mahjong) consiste nel formare una barriera utilizzando le tessere del gioco.

 

Anche gli imprenditori stranieri che provano ad entrare nel mercato cinese con i loro prodotti, si trovano spesso di fronte a barriere, in particolare ad ostacoli di tipo non tariffario consistenti in estenuanti procedure burocratiche che comportano lunghe attese e costi significativi.

 

Uno dei settori più interessati da queste barriere commerciali e’ certamente quello agroalimentare, disciplinato da norme sanitarie che impongono rigidi adempimenti amministrativi e obbligano a presentare numerosi documenti e dettagliate certificazioni sanitarie.

 

In particolare, nel 2013 il Ministero della Sanità ha emanato la “National Food Safety Standard for Nutrition Labeling of Prepackaged Food” con cui il governo cinese ha imposto l’applicazione, sui prodotti alimentari destinati ai consumatori finali, di etichette in lingua cinese con informazioni dettagliate sui componenti nutrizionali.

 

Inoltre, chi intende esportare prodotti agroalimentari e vino in Cina e’ tenuto a registrare i dati relativi all’azienda e ai prodotti esportati sul registro online istituito dalla “General Administration of Quality Supervision, Inspection and Quarantine” (AQSIQ).

 

Forti restrizioni esistono, in particolare, per le carni: e’ previsto il divieto di importare in Cina carni di origine bovina e ovina, nonché i prodotti a base di carne suina, con l’eccezione del prosciutto crudo stagionato 313 giorni e dei prodotti cotti (limitatamente agli impianti italiani riconosciuti idonei dalle autorità cinesi).

 

L’importazione del vino e’ subordinata alla presentazione di una certificazione di analisi dettagliata e un’attestazione della conformità del prodotto alla normativa cinese (in particolare, in merito agli additivi ammessi); dal 2013, è anche obbligatorio presentare un certificato di analisi rilasciato da un laboratorio qualificato da cui sia riscontrabile che i livelli di ftalati non siano superiori ai limiti consentiti.

 

Una notevole limitazione alle opportunità che offrirebbe il mercato cinese e’ rappresentato dal divieto di importare dall’Italia frutta e verdura fresca (il kiwi e’ l’unico frutto fresco che può essere importato).

 

Molto complessa e’ l’importazione in Cina di latte artificiale: una recente normativa, infatti, impone etichette, in lingua cinese, che rispettino la normativa locale ed e’ previsto l’obbligo di importare in Cina solo prodotti con scadenza successiva a tre mesi dalla data di ispezione doganale.

 

Grandi difficoltà sono riscontrate anche nel settore cosmetico in quanto la normativa cinese richiede una certificazione dettagliata degli elementi che compongono i prodotti cosmetici, con un lungo iter per la registrazione obbligatoria presso la SFDA (“State Food and Drug Administration”) e notevoli costi per l’azienda straniera.

 

Nel settore dell’abbigliamento e delle calzature, le aziende europee che esportano in Cina si trovano a dover realizzare etichette in cinese molto più dettagliate rispetto a quanto richiesto dalla normativa comunitaria.

 

Nel settore meccanico ed elettronico le principali barriere sono gli obblighi di marcatura  CCC (China Compulsory Certification) dei prodotti industriali, nonché le differenze tra le norme tecniche cinesi e quelle europee nella definizione degli standard per i ricambi elettronici.

 

Anche per la le piastrelle di ceramica è prevista la certificazione CCC, in particolare in merito all’emissione di radioattività (l’ottenimento del relativo certificato richiede una ispezioni presso l’azienda esportatrice da parte di tecnici autorizzati dall’ente amministrativo cinese).

 

In generale, la rigidità di queste procedure, oltre ad avere come obiettivo dichiarato quello di garantire l’ingresso nel mercato di prodotti controllati e sicuri, sembra avere come secondo fine quello di tutelare la produzione cinese con una politica di tipo protezionistico.